Oggi siamo a Santo Stefano Belbo, il primo paese di Langa, o l’ultimo, a seconda di dove si vada. Terra di Cesare Pavese, instancabile cantore dell’immutabile ciclicità della vita, sulle pendici scoscese dei bricchi, tappezzati di ripide vigne e coronati di scuri boschetti.
Da sempre, qui il re indiscusso è il moscato bianco, una delle varietà che hanno fatto la storia del vino d’Italia, dagli albori della tradizione contadina, fino alla spumantizzazione industriale.
Vittorio e Francesco Bocchino, padre e figlio, gestiscono l’azienda di famiglia Tojo (Vittorio, nel dialetto di queste colline). Producono una favorita fresca e dal buon corpo, una barbera avvolgente, come piace a me e, naturalmente, moscato.
Appunto di moscato, oggi, parleremo. Sì, perché da Tojo e da pochi altri piccoli produttori di Santo Stefano, si sta sperimentando qualcosa di veramente nuovo, fuori DOCG.
Sto parlando di moscato secco fermo. Un vino di grande aromaticità, buon corpo e piacevolissima freschezza, che ricorda, per tipologia, certi Gewürztraminer dell’Alto Adige.
Assaggio sia il 17 che il 16: diversissimi. Mi rendo conto di cosa possa comportare l’annata su un aromatico prodotto da un piccolo produttore artigianale.
È chiaro che la 16, annata più fredda, riservi un impatto olfattivo meno marcato sotto il profilo aromatico, rispetto alla caldissima 17.
Eppure, proprio qui arriva la sorpresa, perché il moscato secco del 16 – che, per inciso, è etichettato solo come vino bianco, con il nome di fantasia Alma – ha uno spettro olfattivo assai più complesso, sauvignoneggiante, quasi a richiamare le graves bordolesi.
La bocca riserva un lieve residuo zuccherino, davvero minimo, forse un grammo o due oltre soglia, che rende più rotondo il sorso.
Un vino tutto da scoprire, come da scoprire sono queste verdissime colline che salutiamo, immaginandole infuocate dai falò, sotto la bianca luce di una luna d’estate, come vorrebbe, per l’appunto, Pavese.