Durante una piovosa giornata di Dicembre, contornati dalla morbida campagna laziale, percorriamo una strada ricca di curve, arrivati ad un incrocio il navigatore ci chiede di svoltare a destra su un sentiero sterrato, e di proseguire tra gli alberi spogli, al culmine di una valle in cui scorre il piccolo fiume Mignone, all’interno di una zona profumata di terra, di storia e mitigata dal vento del mare, la Tuscia Viterbese.
Non sappiamo bene cosa cercare, un cartello indicativo, un’insegna, qualsiasi cosa che ci aiuti a trovare la nostra destinazione, ma non troviamo niente di tutto questo, soltanto un cancello aperto, perché l’azienda San Giovenale non si raggiunge per caso, ma soltanto se c’è l’intenzione e la voglia di trovarla davvero.
La curiosità di vedere cosa c’è dietro quel vino, l’Habemus, fino al 2016 figlio unico della produzione di questa azienda, ormai riconosciuto e premiato da tutte le guide e le riviste di settore, è molta e ci accompagna in questo viaggio Emanuele Pangrazi, uomo dalle mille sfaccettature, imprenditore, agricoltore, produttore, amante del design e dello studio dei dettagli.
Quando si guarda la cantina si ha l’idea di vedere un museo di modern art, sensazione che viene confermata quando vi si entra all’interno, tutto è ordinato e studiato, dalla posizione dei fermentatori in acciaio, sistemate ai lati delle pareti, alle gigantesche porte scorrevoli in vetro, all’illuminazione degli ambienti, si percorre un corridoio centrale e alla fine da una parete vetrata ci si affaccia sulle colline che all’orizzonte si fondono con il mare, passando attraverso una piccola vigna composta dai vari esemplari di vitigno coltivati nell’azienda, tutti rigorosamente internazionali.
Alla domanda come nasce però poi l’azienda, lui ci risponde così: “Io sono stato un ragazzo fortunato nel mio lavoro e ho avuto qualche successo e quindi arrivato alla soglia dei 40 anni mi sono iniziato a chiedere se sono stato fortunato o sono stato veramente bravo. E allora mi sono voluto cimentare in una cosa lontanissima dal mio background e in un comparto economico dove ci sono più di 400.000 operatori, il comparto più affollato che c’è in Italia e da lì è nata questa idea, era l’11 agosto del 2006 ho chiamato il commercialista che stava in Sicilia e l’ho fatto tornare per costituire questa azienda agricola. Il 5 settembre ho costituito la società, il 20 settembre ho comprato tutti i terreni e il 29 settembre ho presentato il piano di impianto dei primi 3 ettari di vigneto e calcolate che fino a quel momento non avevo mai visto una pianta di vite. Tutti mi proponevano un progetto industriale con agricoltura intensiva, ma non era quello che io volevo, io l’industria ce l’avevo già, volevo fare qualcos’altro”.
San Giovenale è un’azienda di 10 ettari, dalla produzione annuale di circa 9000 bottiglie, sita nella zona di protezione speciale Bracciano Cerito e Manziate a 400 m slm, posto unico che permette una viticoltura preindustriale, completamente priva di chimica, grazie anche al clima asciutto che evita l’ammalarsi della vite.
Le viti risiedono su terreni particolarmente argillosi e pietrosi, sono allevate ad alberello e sostenute da un tutore in castagno, il tronco è di soli 40 cm, con grappoli piccoli e spargoli dalla bassissima resa.
L’avventura di Emanuele inizia quando conosce il suo enologo, l’allora trentanovenne Marco Casolanetti, a cui da carta bianca sullo sviluppo agricolo dell’azienda, presentandogli il progetto più ambizioso e tecnologicamente più avanzato della provincia di Viterbo.
L’obbiettivo del progetto è quello di creare un vino che riproduca la sensazione di mangiare un chicco d’uva in mezzo al vigneto, ed è stato sicuramente centrato con Habemus etichetta bianca, che fino al 2015 era composto da un blend di Grenache e Syrah per l’80%, con l’aggiunta di un 20% di Carignan a cui oggi è stata sommata una piccola percentuale di Tempranillo.
E’ finalmente giunto il momento di assaggiare qualcosa, ci spostiamo quindi al piano inferiore attraverso un enorme e moderno ascensore capace di trasportare fino a quattro barrique alla volta.
Arrivati all’ampissima bottaia, ricca di atmosfera, si viene travolti da un intenso profumo di frutta scura in confettura, mescolata all’odore del legno nuovo, perché Emanuele utilizza soltanto botti di primo passaggio acquistate da quattro tonnelier francesi che oltre a costruirle, raccolgono la legna nelle due foreste di querce più importanti di Francia: Fontainebleau e Troncais.
Dopo averci offerto un bicchiere, con una pipetta, aspira del vino direttamente dalla botte, lo versa nel calice e ci dice: “Questo è il Syrah, la bocca dell’Habemus”. E’ un vino carnoso e di grande gusto con evidenti sentori di frutta nera e mallo di mandorla, erbe aromatiche mediterranee e note balsamiche sul finire.
Passiamo subito all’assaggio della seconda botte, “il naso dell’Habemus”, il Grenache, anche lui un vino potente, l’incipit olfattivo è di grande dolcezza, affiorano ricordi di zucchero filato e caramella inglese, vengono alla memoria i profumi femminili degli anni ‘80, è un vino che si potrebbe quasi spruzzare. L’ampio ventaglio olfattivo prosegue con sentori di ginepro, petali di rosa e salmastro. Il Grenache è una varietà che sta dando tante soddisfazioni all’azienda San Giovenale e magari tra qualche anno, ci confessa Emanuele, ne potrebbe nascere un vino in purezza.
Per completare questo destrutturato quadro di Habemus, assaggiamo gli ultimi due vini protagonisti: il Tempranillo e il Carignan.
Non appena degustati, ci appare subito chiaro il motivo che ha spinto l’azienda ad aggiungere il Tempranillo a quello che poteva già essere il blend definitivo, la sua spiccata sapidità, mentre il Carignan è caratterizzato da una forte dinamicità data dall’incredibile freschezza, ed è la fusione delle caratteristiche organolettiche di queste due varietà che crea un binomio esplosivo per la cuvée di Blera.
All’interno del cancello di San Giovenale si respira voglia di sfide e scommesse impossibili, vita vissuta al massimo, ricerca della perfezione, ma anche amore, gratitudine e senso di appartenenza nei confronti del territorio, della famiglia e dell’Italia, si esce da quel cancello e dall’incontro con Emanuele in qualche modo arricchiti, di spunti di riflessione, di bellezza estetica e di appagamento dei sensi.
Non vi diamo nessun consiglio su come trovare questa azienda e l’Habemus, ma vi suggeriamo di cercarla da soli perdendovi in uno dei territori più affascinanti ed incontaminati del Lazio.